Nei contratti d’affitto 3+2 fa 5? i contratti convenzionati di cui alla l. 431/98

Nei contratti d’affitto 3+2 fa 5? I contratti convenzionati di cui alla L. 431/98

1. Attualità del problema.
2. Il dato normativo ed il quesito sulla durata del contratto a canone «concertato».
3. L’analogo quesito postosi materia di locazioni non abitative.
4. Applicabilità alle locazioni a canone libero dei principi accolti, in punto di durata, in materia di locazioni non abitative.
5. La conforme soluzione da accogliersi per le locazioni a canone «concertato»
6. Una difforme opinione dottrinale
7. Le obiezioni ed il significato dell’espressione «è prorogato di diritto»
8. Omogeneità e ragionevolezza della soluzione proposta
9. La soluzione in sintesi

Scadenza, proroga, rinnovo e cessazione: un problema ancora aperto.

1. Attualità del problema.

Dall’entrata in vigore della l. 9 dicembre 1998, n. 431 – la legge sulle locazioni abitative – sono ormai trascorsi più di otto anni. Vi sono alcune disposizioni della legge vigente di cui sappiamo abbastanza: penso all’articolo 2, ultimo comma, volto a disciplinare il passaggio dal vecchio regime dell’«equo canone» o dei «patti in deroga» al nuovo regime. Altre disposizioni – dalle quali probabilmente il legislatore si attendeva di più – non hanno varcato mai o quasi mai le soglie dei tribunali: sappiamo ancora poco, ad esempio, del requisito della forma scritta previsto dall’articolo 1, ultimo comma, mentre non sappiamo pressoché nulla della cosiddetta azione di riconduzione a condizioni conformi istituita dall’articolo 13. Altre disposizioni ancora sono state oggetto di ampia applicazione, che non ha tuttavia condotto ad esiti interpretativi certi: penso all’applicabilità della disciplina dell’esecuzione dei provvedimenti di rilascio ai nuovi contratti ai sensi dell’articolo 6, quarto comma. Qui, nell’incertezza, è intervenuto – direi a gamba tesa – il legislatore, affermando all’articolo 1, sesto comma, l. 8 febbraio 2007, n. 9, contro l’evidente logica della legge del 1998, che a tutte le procedure esecutive per finita locazione concernenti contratti stipulati nel vigore di essa, si applica la procedura in discorso.
Per l’argomento di cui mi appresto a scrivere, invece, le cose stanno diversamente: la giurisprudenza non se ne è affatto occupata, ma neppure poteva farlo. Solo in questo periodo, infatti, nonostante il tempo trascorso dall’entrata in vigore della legge, comincia a porsi per la prima volta il problema della durata dei contratti a canone «concertato»: si tratta cioè di un tema proprio oggi attualissimo, che in precedenza non avrebbe potuto presentarsi se non in un caso – al quale accennerò tra breve – di rilievo pratico pressoché inesistente.

Vediamo perché.
Immaginiamo un contratto a canone concertato stipulato poco dopo l’entrata in vigore della nuova legge: poniamo il 3 marzo 1999. Esso ha superato indenne la data del 3 marzo 2002, in occasione della quale il locatore non ha intimato disdetta motivata. Ha superato indenne anche la data del 3 marzo 2004, in mancanza di disdetta pura e semplice. Si è dunque rinnovato: questo è certo. Ma – ecco il dubbio – si è rinnovato per tre anni o per cinque?
Per la scadenza del 3 marzo 2007, il locatore poteva intimare disdetta pure e semplice per poi agire con la convalida di licenza o sfratto per finita locazione, o doveva intimare disdetta motivata, ai sensi dell’art. 3 l. 9 dicembre 1998, n. 431, per poi introdurre l’azione che comunemente identifichiamo come «diniego di rinnovazione»?
Si comprende bene, allora, che la questione, il cui rilievo pratico è evidentemente notevole, poteva fino ad oggi prefigurarsi nelle riflessioni della dottrina, ma aveva scarse possibilità di presentarsi concretamente nelle aule di giustizia.

2. Il dato normativo ed il quesito sulla durata del contratto a canone «concertato».
Proviamo a rispondere al quesito movendo dal testo della norma – l’art. 2, 5° co., l. 9 dicembre 1998, n. 431 – che è il seguente:
«I contratti di locazione stipulati ai sensi del comma 3 non possono avere durata inferiore ai tre anni, ad eccezione di quelli di cui all’articolo 5. Alla prima scadenza del contratto, ove le parti non concordino sul rinnovo del medesimo, il contratto è prorogato di diritto per due anni fatta salva la facoltà di disdetta da parte del locatore che intenda adibire l’immobile agli usi o effettuare sullo stesso le opere di cui all’art. 3, ovvero vendere l’immobile alle condizioni e con le modalità di cui al medesimo articolo 3.
Alla scadenza del periodo di proroga biennale ciascuna delle parti ha diritto di attivare la procedura per il rinnovo a nuove condizioni o per la rinuncia al rinnovo del contratto comunicando la propria intenzione con lettera raccomandata da inviare all’altra parte almeno sei mesi prima della scadenza. In mancanza della comunicazione il contratto è rinnovato tacitamente alle medesime condizioni».

In prima approssimazione, dunque, possiamo dire che la norma contempla:
– una prima scadenza allo spirare del primo triennio, in occasione della quale il locatore può intimare la disdetta motivata prevista dall’articolo 3 della stessa legge; per ora non prendiamo posizione, invece, sul quesito se alla scadenza del primo triennio possa essere il conduttore a disdire e far così cessare il contratto; le parti possono inoltre concordare espressamente il rinnovo;
– una seconda scadenza allo spirare del biennio di cosiddetta «proroga di diritto» – vedremo poi che il «cosiddetta» è pienamente giustificato – in occasione della quale, senza dubbio, entrambe le parti possono disdire e far cessare il contratto;
– l’eventualità della mancanza di disdetta a questa ultima scadenza, collocata allo spirare del quinquennio, nel qual caso «il contratto è rinnovato tacitamente alle medesime condizioni». Ebbene, il problema con cui dobbiamo misurarci è il seguente: qual è la durata ordinaria dei contratti a canone «concertato»? È una durata triennale o quinquennale? Da qui discende la soluzione del quesito, giacché l’ultima frase della disposizione, secondo cui «il contratto è rinnovato tacitamente alle medesime condizioni», non può che riferirsi a quella durata.

3. L’analogo quesito postosi materia di locazioni non abitative
Individuato il problema, procedendo empiricamente, ci possiamo chiedere se esso sia stato già affrontato e risolto in altri settori della materia locatizia, ovvero se sia esclusivamente proprio della disciplina dei contratti a canone «concertato».

In effetti il problema non è affatto nuovo.
Non solo la normativa sui contratti a canone «concertato», cioè, prevede una prima scadenza contrattuale – in questo caso collocata allo spirare del triennio iniziale – in occasione della quale il locatore non può intimare disdetta pura e semplice, ma soltanto disdetta motivata: motivata, come sappiamo, anzitutto dall’intenzione di destinare l’immobile ad uso proprio o di taluni congiunti, e così via.
Un simile ben noto congegno, infatti, trova applicazione con riguardo alle locazioni non abitative, ai sensi dall’articolo 29 l. 27 luglio 1978, n. 392: si tratta dell’istituto del diniego di rinnovazione del contratto alla prima scadenza nella sua formulazione primigenia.
Accenno appena – trattandosi di nozione elementare – che le locazioni non abitative hanno una durata minima di sei anni, ma, alla scadenza del primo sessennio non cessano per effetto di disdetta da parte del locatore, ma soltanto a seguito di diniego di rinnovazione. Tali locazioni, allora, nel loro primo segmento temporale, hanno durata di sei o di dodici anni?
Al riguardo, in dottrina, si sono fronteggiati due indirizzi.
Alcuni autori hanno sostenuto che la durata del contratto sottoposto al congegno di diniego di rinnovo si determina per via di integrazione legale dall’originario contratto. La legge, per dirla in parole semplici, impone al locatore lo stesso risultato che si otterrebbe se egli, in via negoziale, rinunciasse alla disdetta del contratto alla prima scadenza se non per particolari nominate ragioni.
Nello stesso tempo è stato escluso che la protrazione della durata per il secondo sessennio configuri un’ipotesi di rinnovazione del contratto ovvero di proroga legale del rapporto. Non potrebbe parlarsi di rinnovazione dal momento che essa non sarebbe riconducibile in alcun modo alla volontà del locatore, né di proroga legale, dal momento che la protrazione del vincolo è virtualmente prevista fin dall’inizio.
Altri autori hanno sostenuto che il diniego di rinnovo costituirebbe una sorta di recesso, il quale sarebbe stato previsto, per ragioni di equità, in contrapposizione al recesso del conduttore per gravi motivi introdotto dall’ultimo comma dell’articolo 27 della legge. Come è intuitivo questa impostazione conduce a ritenere che la locazione, nel suo primo periodo, avrebbe durata non di sei, ma di dodici anni, con ipotizzabili ricadute anche sul funzionamento dei successivi rinnovi.
La giurisprudenza, per parte sua, è ferma nel ritenere che la durata legale dei contratti di locazione di immobili urbani adibiti ad uso diverso dall’abitazione sia di sei (o nove) anni. La S.C. in proposito ha affermato che «il contratto può bensì rinnovarsi per un altro periodo di identica durata, secondo quanto dispone l’art. 29 della legge, ma ciò costituisce un effetto solo eventuale, dipendente dalla circostanza che, alla prima scadenza del contratto, il conduttore intenda fruire di detta facoltà ed il locatore non si avvalga del potere di escluderla o non versi nelle condizioni di poterlo esercitare» (Cass. 16 febbraio 1998, n. 1633, ALC, 1998, 709).
Le conseguenze di questa impostazione, sul piano applicativo, sono evidentemente di importanza enorme. Dal rilievo che precede discende che le locazioni non abitative non sono soggette al vincolo della forma scritta ad substantiam previsto dall’articolo 1350, n. 8, c.c., per le locazioni ultranovennali. È infatti affermazione ripetuta quella per cui «la forma scritta ad substantiam è prevista dall’art. 1350 n. 8 c.c. soltanto per quei contratti che originariamente prevedono una locazione di durata superiore ai nove anni e non anche nelle ipotesi previste per le locazioni non abitative dagli artt. 28 e 29 della legge sull’equo canone per le quali il rinnovo alla prima scadenza contrattuale è pur sempre eventuale» (Cass. 16 febbraio 1998, n. 1633, ALC, 1998, 709; Cass. 2 giugno 1993, n. 6130, ALC, 1994, 69; Cass. 27 novembre 1993, n. 11771, ALC, 1994, 307; Cass. 14 maggio 1997, n. 4258, ALC, 1997, 620).
In senso opposto troviamo una solitaria pronuncia nella quale è stato affrontato il problema dell’opponibilità della locazione al terzo acquirente (Cass. 30 dicembre 1991, n. 14012, FI, 1992, I, 2151, secondo cui le fattispecie disciplinate dagli artt. 27, 28 e 29 avrebbero durata di dodici anni, salva l’ipotesi – che non rileverebbe, perché eccezionale – del diniego di rinnovazione alla prima scadenza.
In definitiva, possiamo dire con certezza – tenuto conto che il precedente del 1991 non ha avuto nessun seguito – che le locazioni non abitative hanno durata di sei anni e non di dodici.
Con altrettanta certezza, poi, possiamo tranquillamente dire che, una volta rinnovatesi le locazioni non abitative per mancanza di disdetta alla scadenza del secondo sessennio, la rinnovazione opera semplicemente per sei anni, sicché alla scadenza del diciottesimo anno il locatore può senza dubbio intimare e disdetta pura e semplice e non è tenuto, invece, al diniego di rinnovazione.
Il congegno del diniego di rinnovazione, cioè, trova applicazione una ed una sola volta alla scadenza del primo sessennio.
Dopo che si è posto una prima volta, il problema del diniego di rinnovazione alla prima scadenza, nelle locazioni non abitative, può nuovamente presentarsi soltanto nel caso che, giunto il contratto al dodicesimo anno, le parti stipulino espressamente o tacitamente un nuovo contratto di locazione. Ma questa è un’ipotesi che ora non ci interessa approfondire.

4. Applicabilità alle locazioni a canone libero dei principi accolti, in punto di durata, in materia di locazioni non abitative.
Nessuno dubita, poi, che le medesime regole trovino applicazione con riguardo alle locazioni abitative appartenenti all’altra tipologia contrattuale fondamentale, quella a canone libero, con durata di quattro più quattro anni. È superfluo rammentare che il meccanismo di funzionamento delle locazioni abitative a canone libero è modellato su quello delle locazioni non abitative, con la differenza che in quest’ultimo caso la durata è sei più sei, mentre nell’altro caso è quattro più quattro.
Ecco che ci avviciniamo progressivamente al quesito che ci interessa. L’articolo 2, primo comma, l. 9 dicembre 1998, n. 431, dedicato alle locazioni a canone libero, contiene, in punto di durata, una disciplina caratterizzata da notevoli assonanze strutturali e lessicali rispetto a quella delle locazioni a canone «concertato».
Vi è un primo periodo, quadriennale, all’esito del quale il locatore può intimare esclusivamente disdetta motivata. Vi è poi un secondo periodo, pur esso quadriennale, all’esito del quale il locatore può intimare disdetta pura e semplice. In mancanza di disdetta è stabilito che «il contratto è rinnovato tacitamente alle medesime condizioni»: si tratta, cioè, della identica forma impiegata dal successivo quinto comma, dedicato alle locazioni a canone «concertato».
Al riguardo, in dottrina, si è posto un quesito del tutto analogo a quello sul quale ci interroghiamo oggi. Una volta che il contratto di locazione abitativa a canone libero, di durata quattro più quattro, non sia stato disdetto per l’ottavo anno, che cosa accade al dodicesimo, in occasione della scadenza del terzo quadriennio? Il locatore può intimare disdetta pura e semplice, o deve intimare di disdetta motivata?
La domanda nasce proprio dall’espressione «il contratto é rinnovato tacitamente alle medesime condizioni». Viene rimarcata, in proposito, la differenza con il più chiaro disposto dell’art. 28 l. 27 luglio 1978, n. 392, secondo il quale, in assenza di disdetta, «il contratto si rinnova tacitamente di sei anni in sei anni». Di qui alcuni commentatori sono stati indotti a dubitare che il contratto, giunto alla successiva scadenza, ossia al terzo quadriennio, rimanga nuovamente assoggettato al meccanismo, cui è sottoposto il locatore, del diniego di rinnovazione.
Questa soluzione, però, è inaccettabile e, nella giurisprudenza, non ha il benché minimo addentellato.
La soluzione generalmente accolta, invece, poggia anzitutto su un forte argomento letterale, ovvero sul rilievo che l’art. 3 l. 9 dicembre 1998, n. 431, nel suo esordio, colloca temporalmente il diniego di rinnovazione solo «alla prima scadenza» dei contratti stipulati ai sensi dell’art. 2.
Nello stesso senso milita un altrettanto significativo argomento logico, fondato sull’osservazione che il congegno del diniego di rinnovazione alla prima scadenza è diretto a garantire, a favore del conduttore, un’ampia durata del contratto: questa previsione, naturalmente, è posta a presidio del diritto all’abitazione, così come l’analoga previsione dettata per le locazioni non abitative è posta a tutela delle attività che di volta in volta si esercitano nell’immobile locato. Ed allora, è di tutta evidenza che il conduttore, non ritenuto meritevole della speciale tutela derivante dalla necessità del diniego di rinnovazione in occasione della seconda scadenza contrattuale, non può essere ragionevolmente ritenuto meritevole della stessa tutela alla terza.
Qui possiamo fissare un primo punto fermo, ossia che la lettera dell’articolo 3 della legge vigente, unitamente all’irrazionalità di un diniego di rinnovazione ballerino, applicabile ora sì, ora no, secondo una logica imperscrutabile, conduce a ritenere che quest’ultimo istituto possa essere chiamato ad operare, in costanza di durata dello stesso contratto, una volta e una volta soltanto.
Passiamo quindi ad esaminare un’altra questione, collegata a quelle fino ad ora trattate. In un contratto di locazione a canone libero, di durata quattro più quattro, dobbiamo ritenere che il conduttore, alla scadenza del primo quadriennio, possa o non possa intimare egli disdetta al locatore?
In proposito si è parlato, da parte di alcuni autori, di dissimmetria nella durata del vincolo imposta al conduttore ed al locatore. Altri, invece, hanno ritenuto che il conduttore, alla scadenza del primo quadriennio, non potrebbe far cessare la locazione per propria volontà, e sarebbe anzi assolutamente vincolato alla maggior durata cui il contratto tende.
Quest’ultima soluzione, sul piano letterale, non è così peregrina come potrebbe apparire ad una prima impressione. Si è osservato, al riguardo, che l’articolo 14 l. 9 dicembre 1998, n. 431, ha abrogato l’articolo 3 l. 27 luglio 1978, n. 392, secondo cui entrambi i contraenti potevano far cessare il rapporto per disdetta a ciascuna scadenza, dunque anche alla prima.
Né emergerebbe dalla legge del 1998 una diversa previsione della facoltà del conduttore di impedire il protrarsi del contratto alla scadenza del primo quadriennio mediante la manifestazione di una pura e semplice volontà contraria. In altri termini, occorrerebbe riconoscere che, stando alla lettera della legge, soltanto «alla seconda scadenza del contratto» – come recita l’articolo 2 – ciascuna delle parti ha diritto di sottrarsi alla rinnovazione tacita, manifestando il propria contrario avviso.
In tal modo – sembra esatto replicare – si finisce per erigere a criterio decisivo dell’interpretazione, a prezzo di un esito alquanto paradossale, l’imprecisione tecnica che la legge fin troppo spesso manifesta. Valga osservare, dunque, che il criterio storico di interpretazione mostra con evidenza che il diniego di rinnovazione, originariamente contemplato dall’articolo 29 l. 27 luglio 1978, n. 392, è sorto come limite alla facoltà del solo locatore di disdire il contratto per mera scadenza del termine finale. Rimasto inalterato il meccanismo nel quadro del regime dei «patti in deroga», esso è transitato senza soluzione di continuità nella nuova legge, senza che alcun elemento induca a credere che, da strumento di salvaguardia della stabilità del rapporto posto a tutela del conduttore, si sia trasformato nel suo opposto.
D’altro canto, la soluzione del problema non può prescindere dal dato inconfutabile che il contratto di locazione a canone libero ha, per espressa previsione legislativa, durata quadriennale rinnovabile, salvo diniego ad opera del locatore. Ma, una volta negato che il conduttore possa far cessare il rapporto alla scadenza del primo quadriennio, dovrebbe riconoscersi – contro l’evidenza – che la locazione ha per lui durata non di quattro, bensì di otto anni.
Altro punto fermo, dunque, è che il solo locatore alla prima scadenza può impedire la rinnovazione esclusivamente grazie al diniego di rinnovazione, mentre il conduttore può intimare disdetta pura e semplice.

5. La conforme soluzione da accogliersi per le locazioni a canone «concertato»
Movendo da tali premesse, la ricerca di una affidabile soluzione al quesito che abbiamo preso in considerazione in apertura dovrebbe essere ormai piana.
Il contratto di locazione a canone «concertato», applicando le regole che abbiamo finora riassunto, ha durata triennale. In occasione della prima scadenza il locatore non può intimare disdetta pura e semplice, ma soltanto disdetta motivata ai sensi dell’articolo 3 della legge. Alla stessa prima scadenza, invece, il conduttore può disdire il contratto senza addurre motivazioni.
Ed è questo il caso, al quale alludevo in precedenza, in cui la questione della durata del contratto tre più due avrebbe potuto nel passato porsi: non mi risulta, invece, si sia mai posta, probabilmente per il semplice fatto che assai raramente il locatore si duole della disdetta del conduttore, sempre che essa sia intimata con l’anticipo previsto dalla legge.
Ancora in occasione della prima scadenza triennale – ci avvisa il quinto comma dell’articolo 2 – le parti possono concordare sul rinnovo del contratto: possono, cioè, espressamente accordarsi per la prosecuzione della locazione ovvero per la stipulazione di un vero e proprio nuovo contratto. Si tratta, naturalmente, di una previsione il cui rilievo precettivo è inesistente, dal momento che, anche in mancanza di essa, nessuno avrebbe potuto dubitare della libertà delle parti di accordarsi espressamente come meglio credono. Ad esempio riterrei senz’altro che nell’espressione «ove le parti non concordino sul rinnovo del medesimo» possa ricomprendersi anche l’ipotesi che, giunto il contratto alla scadenza del primo triennio, le parti si accordino per sostituire al contratto tre più due un contratto quattro più quattro.
Ancora in occasione della prima scadenza triennale, se il locatore non intima disdetta motivata, il conduttore non intima disdetta pura e semplice e le parti non concordano espressamente sul rinnovo del contratto, questo rimane – come dice la norma – «prorogato di diritto per due anni».
Si giunge, per questa via, alla scadenza del biennio di proroga. In tale occasione tanto il locatore quanto il conduttore possono senz’altro intimare disdetta pura e semplice.
In mancanza della disdetta «il contratto è rinnovato tacitamente alle medesime condizioni», ossia si rinnova solo ed esclusivamente per un triennio, che, secondo quanto si è già visto, è l’arco temporale di normale durata del contratto. Alla scadenza di questo ulteriore triennio, ancora una volta, ciascuna delle parti può intimare disdetta pura e semplice ed è da escludere che il locatore sia invece tenuto alla disdetta motivata.
Se nessuna delle parti intima disdetta, il contratto continua a rinnovarsi di triennio in triennio.

6. Una difforme opinione dottrinale.
Perché, allora, nel titolo di questa relazione si dice che quello della durata dei contratti a canone concertato è «un problema ancora aperto»? Insomma, il problema c’è o non c’è?
In effetti, a mio modo di vedere, il problema non c’è: e tuttavia un’autorevole dottrina (Gabrielli e Padovini, La locazione di immobili urbani, Cedam, 2001, 507) ritiene che ci sia, sicché dobbiamo tenerne conto. È stato posto l’accento, in particolare, sulle differenze semantiche che intercorrono tra il primo ed il quinto comma dell’articolo 2. Invece di valorizzarsi le somiglianze, si è evidenziato che alla scadenza del primo periodo, rispettivamente quadriennale e triennale, mentre i contratti a canone libero, in mancanza di diniego, disdetta od accordo espresso, «sono rinnovati», il contratto a canone «concertato», nei medesimi frangenti, «è prorogato di diritto».
Dalla menzionata differenza – in un caso si discorre di rinnovo, nell’altro si discorre di proroga – vengono tratte conseguenze sulla stessa durata del contratto. Viene affermato, in particolare, che: «In mancanza di un accordo nel senso della rinnovazione o dello scioglimento, il contratto dura cinque anni, salva la facoltà del locatore, e di lui solo, di recedere prima della scadenza.
Si parla qui di recesso e non di disdetta, perché, nell’ipotesi di proroga di diritto, la facoltà del locatore è quella non già di opporsi, per impedire una rinnovazione tacita, ma di abbreviare la durata del rapporto rispetto alla durata sostanzialmente quinquennale prevista dalla legge. In sostanza, il rapporto di locazione abitativa ha contenuto eterodeterminato dura cinque anni, ma il locatore, ed egli soltanto, può, in vista della scadenza triennale, recedere».
Coerenti, poi, le conseguenze tratte con riguardo al congegno di rinnovo alla scadenza del quinquennio. Secondo l’indirizzo dottrinale in esame, infatti, il rinnovo non potrebbe che avvenire per un quinquennio, con riproposizione, alla scadenza del triennio, e cioè, in pratica, all’ottavo anno, della necessità del diniego di rinnovo: «Se le parti, entro sei mesi prima della scadenza quinquennale, rimangono inerti, ossia non manifestano alcuna volontà, il contratto si rinnova tacitamente “alle medesime condizioni” previste da lei primi due periodi del quinto comma, e quindi per altri cinque anni, facendo nuovamente salve le facoltà delle parti di convenire, nel corso del secondo quinquennio, uno scioglimento anticipato della facoltà del locatore di recedere in vista della scadenza del primo triennio del secondo quinquennio».

7. Le obiezioni ed il significato dell’espressione «è prorogato di diritto».
Questa soluzione, però, va incontro a molteplici obiezioni.
L’obiezione fondamentale attiene all’attribuzione di un rilievo decisivo ad un’espressione – quella secondo cui il contratto alla scadenza del primo triennio è «prorogato di diritto» – la quale non sembra possedere affatto il significato che la dottrina vorrebbe attribuirle.
Difatti il «rinnovo» dei contratti cui la normativa speciale atrubuisce un termine legale di durata altro non è che una «proroga», ossia la prosecuzione senza soluzione di continuità dell’originario rapporto: un fenomeno, in altri termini, del tutto analogo a quello che si verifica nell’ipotesi considerata dal primo comma della disposizione, ossia nel caso che, alla scadenza del primo quadriennio di un contratto di locazione a canone libero, né il locatore né il conduttore intimino disdetta, motivata o pura e semplice che sia. Ed allora l’esaltazione della peculiarità del richiamo alla «proroga», con le conseguenze che ne deriverebbero sul piano dell’individuazione della concreta disciplina applicabile, appare frutto di una forzatura.
Cercherò di accennare brevemente ai termini del problema, che sorge da una certa imprecisione del dettato codicistico.
L’articolo 1596 c.c., sotto la rubrica «Fine della locazione per lo spirare del termine», stabilisce che: «La locazione per un tempo determinato dalle parti cessa con lo spirare del termine, senza che sia necessaria la disdetta. La locazione senza determinazione di tempo non cessa, se prima della scadenza stabilita a norma dell’art. 1574 una delle parti non comunica all’altra disdetta nel termine … determinato dalle parti o dagli usi».
Dunque, la locazione a tempo determinato cessa con lo spirare del termine, la locazione senza determinazione di tempo non cessa con lo spirare del termine.
Ma – occorre ancora chiedersi – quali sono le locazioni «senza determinazione di tempo»? Sono cioè locazioni destinate a protrarsi sine die? Naturalmente no, perché l’articolo 1574 c.c., intitolato appunto alle «Locazione senza determinazione di tempo», stabilisce precise regole che valgono ad individuare il termine finale della locazione quando la durata di essa non sia stata determinata dalle parti.
Insomma, sia le locazioni per un tempo determinato che quelle senza determinazione di tempo hanno un termine finale: nell’un caso, però, il termine è direttamente indicato dalle parti in sede negoziale; nell’altro caso, invece, il termine è stabilito dalla legge.
Ecco perché, secondo l’articolo 1596 c.c., le locazioni a tempo determinato cessano alla scadenza: perché sono state le stesse parti, ab origine, a stabilirla, sicché non occorre alcuna altra loro manifestazione di volontà in tal senso. Ecco perché, invece, le locazioni senza determinazione di tempo richiedono la disdetta: perché le parti non hanno stabilito il termine, che è invece fissato dalla legge, sicché occorre verificare se esse intendano sottomettersi alla durata legale ovvero vogliano che il rapporto si protragga.
Ebbene, l’articolo 1597, primo comma, c.c. discorre in entrambi i casi di rinnovazione: «La locazione si ha per rinnovata se, scaduto il termine di essa, il conduttore rimane ed è lasciato nella detenzione della cosa locata o se, trattandosi di locazione a tempo indeterminato, non è stata comunicata la disdetta a norma dell’articolo precedente».
Ma si tratta di casi omogenei? Può essere con la stessa precisione impiegata l’espressione «rinnovazione» per identificare tanto la stipulazione di un nuovo contratto dopo lo spirare del termine finale di una locazione a tempo determinato, quanto la prosecuzione, per mancanza della disdetta, di una locazione a tempo indeterminato?
Senza voler allora ripercorrere l’ampio dibattito dottrinale che si è svolto sul punto, sembrerebbe preferibile rispondere negativamente.
Difatti, mentre è senz’altro corretto discorrere di rinnovazione nel caso del contratto a tempo determinato, rinnovazione che si verifica se «il conduttore rimane ed è lasciato nella detenzione della cosa locata», non è altrettanto esatto configurare come rinnovazione la protrazione del rapporto determinata dalla mancata intimazione della disdetta nei contratti a tempo indeterminato. In quest’ultima ipotesi, è lo stesso art. 1596 c.c. a porci sull’avviso che la locazione, in mancanza di disdetta, «non cessa» alla scadenza, sicché rimane in vita: quello che si determina per effetto della mancata disdetta, allora, é una semplice continuazione del rapporto, proprio una «proroga» del contratto originario, secondo l’espressione impiegata non solo in alcune pronunce dalla giurisprudenza, ma già dallo stesso articolo 1598 c.c., il quale afferma che: «Le garanzie prestate da terzi non si estendono alle obbligazioni derivanti da proroghe della durata del contratto».
In definitiva, l’espressione «rinnovazione» è utilizzata indifferentemente tanto da legislatore, quanto nel linguaggio comune. E tuttavia, volendo semplificare al massimo, la «rinnovazione» dei contratti a tempo determinato consiste nella stipulazione di una nuova locazione, mentre la «rinnovazione» delle locazioni a tempo indeterminato consiste in una semplice proroga della locazione già in essere.
Guardiamo ora alla rinnovazione per mancanza di disdetta dei contratti sottoposti alla disciplina speciale: si tratta, qui, di contratti in cui la durata non è voluta dalle parti, ma è stabilita dalla legge. Il congegno della «rinnovazione» per mancanza di disdetta delle locazioni abitative, tanto a canone libero che a canone «concertato», così come delle locazioni non abitative, è senz’altro assimilabile alla «rinnovazione» dei contratti a tempo indeterminato. La mancanza della disdetta, qui, determina non una «rinnovazione» nel senso di stipulazione di un nuovo contratto di locazione, ma la semplice prosecuzione, la proroga cioè, dell’originario contratto.
Appaiono in definitiva ineccepibili le considerazioni svolte in replica alla tesi minoritaria qui considerata: «La ricostruzione, tuttavia, appare poco persuasiva: concettualmente, il “rinnovo” del contratto a tempo indeterminato è esso stesso una “proroga” … e la medesima conclusione non può non valere – stante la sostanziale equiparabilità delle fattispecie – per i contratti cui la normativa speciale conferisca un termine legale di durata; esaltare, quindi, la peculiarità del richiamo alla proroga per ricavarne conseguenze sul piano dell’individuazione della concreta disciplina applicabile sembra un percorso insidioso. In punto di fatto, il primo e il quinto comma dell’art. 2 appaiono simmetrici nelle rispettive previsioni.
La scadenza del primo triennio riproduce, allora, le medesime situazioni che si determinano allo spirare del primo quadriennio del contratto a canone libero: onde deve ritenersi che anche per detta scadenza il conduttore possa intimare disdetta. Una volta che si sia compiuto il ciclo di cinque anni, il rinnovo tacito sembrerebbe avere durata di tre anni: e invero, esso si attua, secondo quanto previsto dalla norma, “alle medesime condizioni”, per tali dovendosi intendere le condizioni convenute nel contratto concluso: contratto che, nella determinazione delle parti, aveva durata triennale» (in questo senso FALABELLA, in DI MARZIO, FALABELLA E SALARI, La locazione, III, Torino, 2005, 1418, sulla scorta di BUCCI, La disciplina delle locazioni abitative dopo le riforme, 2ª ed., Padova, 2000, 54; DI MARZIO, in CUFFARO, Le nuove locazioni abitative, Milano, 2000, 50).

8. Omogeneità e ragionevolezza della soluzione proposta
Si è visto, dunque, che il riferimento alla «proroga» non possiede alcun rilievo, giacché con tale espressione si descrive un fenomeno in tutto analogo a quello del rinnovo, alla scadenza del primo quadriennio, dei contratti a canone libero. Rimane perciò confermato che la durata dei contratti a canone «concertato» è triennale e non quinquennale.
Da ciò discende che, in mancanza di disdetta alla scadenza del quinquennio (triennio più biennio), il contratto si rinnova per un triennio soltanto.
Questa soluzione è da preferire, oltre che per la coerenza dogmatica, perché la diversa soluzione comporterebbe la configurazione di un meccanismo del tutto sconosciuto alle altre ipotesi sottoposte dalla legge al diniego di rinnovazione (locazioni non abitative e locazioni abitative a canone libero) e si risolverebbe in un congegno stravagante per la ragione poc’anzi evidenziata: il conduttore, cioè, riceverebbe tutela, curiosamente, al terzo, ottavo, tredicesimo anno e così via, ma non al quinto, decimo e quindicesimo. Ed allo stesso tempo, alle prime tre scadenze ora indicate, non potrebbe sciogliersi dalla locazione, mentre potrebbe sciogliersi da essa soltanto il locatore, sia pure a mezzo della sola disdetta motivata.

9. La soluzione in sintesi.
Schematizzando, quindi, possiamo dire che le variabili, in tema di durata della locazione abitativa a canone «concertato», sono le seguenti:

a) il contratto ha durata minima triennale;
b1) alla scadenza del triennio, le parti possono convenire un rinnovo, accordandosi quanto alla protrazione del vincolo, o alla sua novazione, per la medesima durata minima triennale per cui era stato concluso il contratto (i termini dell’accordo devono però essere conformi alla previsione della contrattazione locale);
b2) diversamente, in vista della scadenza del triennio, il conduttore può intimare disdetta (dovendosi ritenere che detto soggetto abbia detta facoltà, alla stessa stregua di quanto detto per i contratti a canone libero);
b3) il locatore, invece, per lo spirare dei tre anni, può intimare diniego di rinnovo;
b4) se non c’è accordo sul rinnovo o disdetta di una delle parti, il contratto si rinnova per un biennio;
c1) alla scadenza del biennio le parti possono convenire un rinnovo a diverse condizioni;
c2) il contratto si rinnova per un triennio se la disdetta manchi, sempre, ovviamente, che non intervenga un nuovo accordo, anche successivamente al termine semestrale previsto per l’attivazione della procedura;
d) alla terza scadenza, il contratto cessa in forza di disdetta non motivata, altrimenti si rinnova per un ulteriore triennio, e di qui di triennio in triennio.

Dott. Mauro Di Marzio
Magistrato