Le forme di risoluzione delle controversie condominiali
Le controversie in materia condominiale sono, ovunque, frequenti e numerose; oggi con il tentativo obbligatorio di conciliazione, che peraltro crea forti perplessità, si possono risolvere in via bonaria.
Conciliazione e arbitrato sono i due istituti che possono risolvere la problematica.
Nell’ambito del condominio, infatti, non è escluso che sia prevista nel regolamento una clausola compromissoria che preveda il ricorso all’arbitrato per risolvere le controversie insorgende tra condomini e tra questi e l’amministratore.
Del resto i condomini vantano, sulle parti comuni, diritti soggettivi di natura patrimoniale e quindi disponibili e conseguentemente compromissibili ex articoli 806 e 808 Codice procedura civile.
La clausola arbitrale vincola anche l’acquirente di una singola unità immobiliare per effetto del disposto dell’ultimo comma dell’art. 1107 Codice civile, o per sua espressa accettazione della clausola de qua anche per relationem.
D’altronde l’art. 1137 Codice civile, dichiarato inderogabile dal successivo art. 1138, vieta soltanto la non impugnabilità delle delibere assembleari, prevedendo che debba sussistere sempre una forma di controllo cognitivo della validità delle delibere; per il rispetto del termine di decadenza di trenta giorni, disposto dall’articolo ut supra citato, è sufficiente che la parte impugnante dichiari di volersi avvalere delle suddetta clausola, ne esponga i motivi e nomini il proprio arbitro ex art. 810 Codice procedura civile.
L’arbitrato è una convenzione negoziale specifica, finalizzato a conseguire un lodo, che ha efficacia di sentenza ex art. 824 bis Codice procedura civile, per la riparazione delle lesioni subite dal diritto privato di un soggetto giuridico.
Si deve rammentare che l’arbitrato può essere radicato in virtù di un’inequivocabile clausola compromissoria scritta, inserita in un contratto al fine di risolvere possibili vertenze future, ovvero di un compromesso, sempre scritto, allorché le parti, già insorta tra loro una lite, decidano di risolverla ricorrendo ad un arbitrato; ciò in quanto nessuno può essere sottratto del proprio diritto di vedersi giudicato dall’autorità giudiziaria ordinaria (art. 24 Costituzione).
Accettando, comunque, una clausola compromissoria le parti sono consapevoli di rinunciare alla competenza del giudice ordinario.
Ne consegue che la relativa clausola del regolamento condominiale deve essere contrattuale, e non deliberata, quindi, a maggioranza, e, inoltre, che l’amministratore non è tenuto all’osservanza della suddetta clausola se non espressamente dal medesimo accettata anche con un compromesso ad hoc; purché l’assemblea che lo delibera sia totalitaria.
In ogni caso la clausola compromissoria non può inerire al recupero dei crediti che deve essere radicato dall’amministratore nei confronti del condomino moroso ai sensi del combinato disposto degli articoli 63 disp. att. Codice civile e 633 Codice procedura civile.
L’amministratore, poi, ha il potere di inserire una clausola compromissoria in un contratto di appalto ai sensi dell’art. 806, comma terzo, Codice procedura civile, avendo egli il potere di stipulare il relativo contratto una volta regolarmente approvato con una valida delibera condominiale.
In tutte le ipotesi di cui trattasi qualora sussista nel regolamento di condominio o nel contratto una clausola arbitrale, l’amministratore è obbligato a nominare l’arbitro del condominio, se la parte avversa ricorra all’arbitrato, ma non è obbligato, viceversa, a nominare un legale che si costituisca nel procedimento per il condominio, dovendone essere valutata, di volta in volta, l’opportunità.
L’amministratore deve, altresì, verificare che la domanda della controparte corrisponda al contenuto della clausola arbitrale, in quanto una siffatta eccezione deve essere proposta alla prima udienza fissata dall’arbitro e dal collegio arbitrale.
L’amministratore inadempiente risponde per eventuali danni provocati quale mandatario e rappresentante del condominio (Cass. civ., Sez. II, 18 maggio 2009, n. 11419).
Il rito arbitrale ha alcuni limiti e determinate procedure che devono essere osservati dagli arbitri in quanto la loro violazione comporta l’impugnabilità del lodo per nullità.
Uno strumento che il legislatore sembra prediligere è quello della conciliazione, che è stata introdotta a pieno titolo tra i metodi di soluzione negoziale delle possibili liti insorgende con l’art. 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, che peraltro ha quale titolo “Delega al Governo in materia di mediazione e di conciliazione delle controversie civili e commerciali”; tale delega è stata attuata con il D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28, che entrerà in vigore il 20 marzo 2011.
Anche nel caso della conciliazione è necessario che si discuta in merito ad un diritto disponibile delle parti confliggenti, corrispondente a un proprio diritto per cui abbiano un potere negoziale, e, conseguentemente, di convenire le condizioni risolutrici della loro controversia.
A differenza dell’arbitro e, a maggior ragione, del giudice, che deve verificare la realtà sostanziale posta a base della controversia per decidere in forza della norma di diritto che la disciplina, il conciliatore deve analizzare gli interessi concreti delle parti al fine di proporre una soluzione transattiva della loro controversia.
Non solo, mentre il procedimento arbitrale deve seguire l’iter procedurale previsto dal codice di rito, tanto è vero che una non corretta formazione del procedimento costituisce una condizione d’invalidità del lodo arbitrale, il procedimento conciliativo è libero, così che una non corretta procedura non determina l’invalidità dell’intervenuto accordo tra le parti.
Del resto, mentre nell’arbitrato le parti espongono le tesi giuridiche a sostegno della loro domanda, nella conciliazione le parti prima vengono a conoscenza della soluzione che più risponde al proprio specifico interesse e, solo successivamente, approvano il contenuto dell’accordo conciliativo.
Il conciliatore è il catalizzatore degli interessi delle parti e deve sentirle separatamente per consentire loro di esprimersi liberamente e senza timore alcuno che quanto riferitogli sia posto a conoscenza della parte avversa, agevolando, in questo modo, il dialogo e la comprensione reciproca.
Il conciliatore, creatasi una sua opinione di come proporre concretamente una soluzione del conflitto insorto tra le parti, la propone affinché queste la possano valutare consapevolmente e in modo oggettivo e, quindi, decidere se addivenire a una transazione, ovvero se procedere radicando una causa avanti l’autorità giudiziaria ordinaria.
Il conciliatore, pertanto, deve individuare l’utilità che le parti intendono conseguire sfruttando tutte le facoltà e le possibilità che, comunque, l’ordinamento concede loro.
La ratio della riforma citata, consiste nel deflazionare le cause giudiziarie e diffondere la cultura del ricorso alla conciliazione per risolvere le controversie, così come richiede l’Unione Europea.
Il decreto legislativo 28/2010 ha introdotto una mediazione anche per le controversie in materia di condominio.
In materia condominiale il tentativo di conciliazione rappresenta una condizione di procedibilità dell’eventuale successiva domanda giudiziale.
Le parti, comunque, sono libere di scegliere l’organismo pubblico o privato presso il quale intendono svolgere il procedimento di mediazione, purché tale ente sia accreditato presso il Ministero di giustizia.
Avv. GIAN VINCENZO TORTORICI
Presidente UPPI Pisa